La nuova stella

Le celeberrime colonne svarionesche del palazzo del Pascià di Spanciafolle si scosciavano sgargiando sopra il brulichìo zigzagante e frusciante della folla, un tappeto peloso di blatanoidi avvinghiati tra loro e alla grande piazza dove, solo poche ore prima, i frinitori si sforzavano con gran fragore di inneggiare al radioso sorgere della nuova stella, in un tripudio distorto e monocorde sparso copiosamente verso il rosso rantolante della vecchia, moribonda, rinsecchita e abbandonata.

La nuova stella non era sorta.

Solo il rosso sterile di brace, sopra il colonnato, concordava all'aspetto del palazzo un minimo di consistenza, alla grande folla, stracasciata sulla lieve sicurezza offerta dalla pavimentazione liscia e solida, un poco di calore, di conforto. Il palazzo esisteva ancora a malapena, immerso nel nerume vuoto ed asfissiante, nel ticchettìo sommesso e ritmico di zampe intente a fabbricare nuove intense preghiere di rinascita e illuminazione.

La nuova stella non poteva non sorgere.

***


Il postino disertore cammina per l'enorme distesa paludosa, sprofonda ad ogni passo e ad ogni passo slancia il busto, per tenere almeno i fori d'aerazione oltre il livello della melma informe che rallenta e spreme di fatica.
La gamba elastica si è fatta dura, tozza, gonfia, esplode con furia nel fondale appiccicoso, costretta a spingersi in avanti prima di affondare troppo in basso; finchè a un passo segue un altro, ad un respiro segue un altro, si continua; si continua ad aspirare l'odore asfissiante di putrefazioni e fermenti innominabili.
Il postino disertore straccia i suoi pensieri al ritmo degli strappi e delle fitte di dolore sulle gambe, la palude è immensa e indifferente, la gemma dentro il sacco, pesante come un masso, appesa tra le fauci strette, alla sommità di quel lungo tubolare traballante che è il suo corpo, emana una tenue sfera rosastra, estrae dal nero informe una porzione di ribollìo nauseabondo dove non affondare.

La gemma non può macchiarsi con l'impurità del fango, dell'infame informe morte nera e liquefatta, non può confondere la sua vitalità lucente, neanche dopo che la campanella del disonore ha già strillato, neanche dopo che la lancetta ha smesso di segnare, col suo ticchettìo frenetico, il passo di corsa necessario a consegnare entro il tempo destinato.
Il postino torsolungo è diventato un disertore, un niente che cammina senza meta verso una delle tante possibili morti umilianti e disonorevoli riservate ai suoi pari, e tuttavia prosegue lungo il suo cammino, solo quella meta gli rimane, nulla più.

***


Il Pascià di Spanciafolle si spargeva, stravaccato sotto le maestose colonne poste a sostegno del braciere vuoto. Marziali, nei loro bozzoli ingioiellati, i grogoli guardiani controllavano il fruscìo ed il ticchettìo della folla brulicante nel piazzale, stretti al freddo bagliore grigiastro dei dissezionatori. Un fruscìo sgusciava tra le pieghe delle ombre, con un vago gorgoglìo di delusione, quella solita delusione pronta a diventare rabbia, poi disperazione, poi follia assoluta, mentre l'aria appesantiva sulle gobbe laterali, lacerava i coni d'areazione, intonando un coro di piccoli dolori assemblati in un unica, insistente, sinfonia pulsante e inafferrabile di graffi, pizzichi, pruriti e punture.


La gemma non era arrivata.


Il Pascià gonfiava alternativamente le sue quattro pancie e alternativamente rifletteva sulla gravità inaudita di quello che gli stava succedendo:


«Proprio a me doveva capitare, a me, ventesimo degli ultimi e irconcinesimo dei mirabili; a me che ricondussi il Tronfio dalle nebbie e riaggiogai le sette spose, a me...»


"Respira a fondo adesso, che questo è il solo istante in cui potrai pensar qualcosa di sensato, prima di essere sbranato dalla foia inarrestabile dei tuoi tre stati di demenza, quelli che t'impedirono di riconquistare Klassia e di contare i tuoi tribuh...hg!"


-Niente gemma ------> fine della satrapìa ------> morte certa per tutti.
Niente gemma ------> fine della satrapìa ------> morte certa per tutti ------> ...
Niente gemma ------> fine della satrapìa ------> morte certa per tutti ------> fine.-


<...La fine è un inizio.
L'inizio è nel buio.
Nel buio nascosto.
Nascosto alla mente.
La mente corrotta.
Corrotta dal fuoco.
Dal fuoco tiranno.
Tiranno gentile.
Gentile e bugiardo.
Bugiardo coi servi.
Coi servi fedeli.
Fedeli al pensiero.
Pensiero ritmato..>


La gemma non avrebbe più lacerato i confini del nero opprimente, del niente vorace di essenze vitali.


***


Il niente torsolungo si dilegua lungo la linea sfumata, oltre la sfera rosata diffusa dalla sacca, nel vasto nerore divampante tutt'intorno, nel vasto nerore monolitico e insensibile agli incespichi e alle imprecazioni, al pulsare della gamba inarcata, mentre sventola la sua estremità appuntita intorno a incandescenze che sprigionano dal grande ed incessante mescolarsi della piana di Sgrogogo, alla ricerca di un minimo punto d'appoggio.
Scoppietta e grogola la piana, rimescola ed inghiotte e sputa, non concede passi falsi nè riposo alcuno; la sottile evanescenza di una gamba filiforme slunga verso un altro passo e un altro ancora, sembra chiedere nient'altro che di stare in piedi e di arrivare al basamento, alle timide e minime braci che sfibrillano piano, nel mezzo del buio, ancora lontane, sin troppo lontane; continua a slungare, si sfianca tra i tonfi e gli splunfi nel vago contorto rifrarsi della schiuma ribollente sui pallidi raggi rosati della gemma pesante, stretta tra le fauci doloranti, tra le mascelle pietrificate trafitte da spilli sempre più appuntiti, sempre più grandi, mentre un terrore sommesso stride con voce di basso continuo nel fondo dell'anima e attende, da un momento all'altro, l'emergere infame e caotico del grande Mruhlummàhg, del grande e terribile gorgo che sfibra ed assorbe ogni corpo mortale.
L'angoscia compone due o quattro parole, le gira e le spalma sui resti disfatti, confusi, di quella coscienza che s'è fatta sguardo ed udito, nenia di dolori ritmica e feroce, contatto di gamba in allerta costante:
«Non di qui...dovevo, non passare...dovevo, di qui...passare non...»


***


Le quattro pance del Pascià pulsavano e contorte s'inarcavano ad un ritmo sempre più serrato, ponderando allucinate soluzioni all'impossibile, all'ineluttabile sfinirsi delle gobbe sfiatatorie.
I grogoli guardiani oscillavano vistosamente, nel confuso barbagliare mite e grigio dei sezionatori trattenuti debolmente.
Il fruscìo divenne, tutt'a un tratto, sgangherìo violento ed insistente di movenze confuse e impercettibili, di assembramenti e smembramenti, in una danza frenetica senza capo nè coda, condotta al ritmo sempre più incalzante, feroce, dello sfibrato e soffice soffio di mille chele battenti, di mille sfiatatoi feriti. Diverse piccole ombre scarrubiformi, appese al bagliore rossastro delle grandi colonne, aspiravano ansiosamente gli ultimi attimi di vita e di respiro.
Qualcuno cominciò ad arrampicarsi più in alto degli altri, sulle creste e sulle scaglie, sulle teste.
Qualcuno cominciò a cadere all'indietro, sulla folla assembrata in un enorme mucchio intento a fagocitare sé stesso.
Il trillo piagnucoloso dei dissezionatori si azionò d'un tratto, ad un cenno impercettibile del gran Pascià disteso ed affannato, annoiato. Si azionò per sfigurare e sfarinare il ventre molle del gran cumulo di disperata follia, accasciarlo sull'oscuro liquefarsi della grande e muta piazza.

Lo sgangherìo aumentò d'intensità e velocità, man mano che la folla si slanciava su sè stessa, una immane piramide brulicante, e ricopriva l'ultimo bagliore di luce con i suoi corpi moribondi rotolando giù e su, in un intreccio inestricabile di cadute, calci, ricerche di appigli, ticchettii e stridii furiosi eppure tenui, come distanti; l'arrampicarsi estenuante di corpi su corpi si schiacciò da sè, in battiti convulsi sempre più rumorosi, spezzando gli ultimi tremuli fili di luce sanguigna.

Quando l'ultima scintilla di brace fu scomparsa alla vista, inghiottita dal nerore, quando il battito frenetico fu diventato un unico incessante insopportabile sfioramento d'apparati uditivi, quando l'ultimo dissezionatore cadde all'ultimo grogolo sfinito, quando con un breve sussulto si spezzarono le colonne e crollarono sotto la massa informe dei blatanoidi impazziti, l'immensità del vuoto trafisse ogni ultima sopravvivenza con il suo immenso non essere silenzioso e nero.





Perse nel nero più assoluto, là dove forse ancora le colonne sostenevano un braciere vuoto e inutile, le quattro pance continuarono nel loro ritmico contorcersi ancora per un poco, litigando e recriminando l'una con l'altra; poi, improvvisamente, divennero tre.



Si contorsero a un ritmo lievemente accellerato, a volte perdendo l'ordine delle successioni, mentre l'aria appesantiva ancor di più, mentre impercettibile cominciava a udirsi il lento liquefarsi della piazza; poi divennero due.



Si contorsero in maniera frenetica, a volte persino contemporaneamente, con un ultimo impetuoso fremito di ticchettii; poi ne rimase una sola.



Sempre meno convinta, ancora per un poco, l'ultima pancia si contorse solitaria, poi smise anch'essa, con un ultimo sussulto, un sospiro di noia infinita.



Nel grande piazzale nulla ancora si muoveva.

***

Per questa volta la morte per assorbimento e sfibratura è rimandata: il Mruhlummàhg ha preferito cullarsi nel suo enorme e cipolloso gurgumfrane, rimanere ancora per un pò leggenda curva nel nonnulla tremulo e bavoso che si tende all'infinito verso il Sotto.
Passo dopo passo, nella vaga ribollenza, s'è perduto, con lontano alzar di spalle, quel tremore petulante, gonfio di preghiere e imprecazioni, che intasava il mormorìo della coscienza. Il nulla torsolungo procede sicuro e spedito come nei giorni migliori, quando ancora si fregiava del titolo di postino e sgambettava lungo i sentieri dell'Atlante Geofagico.
Ora solide sporgenze grattano le ultime insistenze molli e ribollenti della piana di Sgrogogo, la meta si avvicina, laddove l'impronta solida di quella che fu la grande luce rossa prende lentamente e inesorabilmente consistenza.
Procede sempre più spedito, lungo i saltellii ancora scolpitiattraverso la penombra rosastra che lo circonda scorge a malapena le difformità contorte delle statue rombiformi, poste a guardia delle buche tonde, dove i grappoli di blatanoidi sono (sono?) soliti ammassarsi nei momenti del riposo.
Nulla e niente si muove nei dintorni (...erano?), l'aria densa soffoca e costringe a nuotare più che camminare, con la spinosità del capo parallela al piano sempre più regolare del terreno, le filiformi estensioni del busto superiore che sbracciano e sbatacchiano con ordine precario, sgocciolando di autoconsunzione.

***

Per infinite attese regnò, il nero silente e sonnecchiante, sulla grande piazza ingoiastracci, sopra i resti informi di coloro che servirono i mirabili, lungo innumerevoli Digestioni-dello-stomaco-profondo-del-mondo.
Per infinite attese il nero s'infiltrò nel liquefarsi delle gobbe e dei sezionatori, delle frampe e delle pance.
Per infinite attese il nero rotolò dentro il braciere abbandonato senza meta e senza fiamma, in mezzo ad un sospendersi turbato solamente dalle vibrazioni sempre più insistenti del vorace semiliquefarsi sottostante.

Poi, dalle immersioni infinite del qualcosa deve pur esserci, un lieve sfiatare rosato cominciò timidamente a ridonare consistenza ed esistenza, nel grande sparpagliarsi di deformità smussate, qualcosa cominciò a ridefinirsi.
Donava consistenza e poi la sottraeva in fretta, per donarla a qualcos'altro, il raggio della sfera tremula e rosata, increspando le torpide budinescenze senza vita.
Le pozze collose degli antichi blatanoidi, riflettendo la propria gelatinosità, cominciarono a vibrare impercettibilmente, man mano che sflosciandosi cedevano lo spazio all'ampio trespolìo del portasferarosa, diretto, come per un misterioso richiamo, al centro esatto delle rovine appiccicose e informi di quello che un tempo fu il palazzo del Pascià di Spanciafolle.
Al centro del palazzo il gran braciere sprofondava, lentamente e inesorabilmente, fuso dentro il proprio stesso peso, accasciandosi sulle sue lunghe e flessuose ed elastiche e deformi zampe ripiegate, estese in larghe, piatte sinuosità, confuse nell'abbraccio della pavimentazione ondulata, cremosa, annegata nel suo stesso lento e denso mescolarsi.

***


Il braciere giace semireclinato su un informe ripiegarsi di tentacoli, dove un tempo solide colonne in pietratorva prostravano lo sguardo e trafiggevano l'orgoglio, sul sommesso borbottìo del lento e inesorabile disfacimento di rovine già disfatte, dove un tempo si spargevano i pascià di spanciafolle, sul deformarsi e ripiegarsi e liquefarsi di ogni cosa nera e fredda.
Il niente portasferarosa non riflette e non ricorda e non rimane a rimirare il tremolìo gelatinoso dell'inesistenza disturbata dal suo sguardo, depone nel braciere la sacca pendente dalle fauci sigillate con un colpo secco, poi la strattona vigorosamente, senza guardarla mentre scivola al suo posto, sul fondo, spodestando le inerti ceneri della vecchia stella con un lampo rosso sangue, uno squarcio violento sul nero liquefarsi di ogni cosa, che esplode e slarga per i cumuli d'inesistenza appiccicosa e ribollente.
Sotto il braciere, abbracciato a quello scivolìo umidiccio di contorsioni informi che ne sostiene senza convinzione l'infrangibilità, il niente torsocurvo distende le sue lunghe membra, e nel distendersi depone un infinito peso di stanchezza e torpida disperazione, una confusione di passi dietro passi dietro passi, sguardi vigili e taglienti, e quella volta in mezzo al fumo delle Bocche di Sgahara è quella volta sopra il Ponte tripartito di Accalosia è quella volta in cui dal Trespolo arrivarono un messaggio e un messaggero da Sua Lunghezza alle Poste Centrali è quella volta in uniforme da apprendista con l'atlante sottobraccio è quella volta in mezzo al fronte della Sesta guerra senza uscita in uniforme da postino è quella volta in mezzo ai fasti dell'Antica Ingoia Genti è quella volta in mezzo al pogrom dei cantori è quella volta nella tazza del Gragante è il ticchettìo frenetico e infnito di ogni volta è quell'infame strillo taglia orecchie torso e gambe è questo gran tepore che confonde e sovrappone e unifica e glorifica è l'abbraccio trepido di una nuova luce, nuova linfa, nuova vita, e gira pigramente su sè stesso, sprofonda dentro sè, svanisce dentro ad un abisso rosso e comodo e accogliente, si accoccola, si scalda e tranquillizza, è quello stretto abbraccio dell'intubatrice, si ricorda, si ricorda, si rigira ed entra sempre più in profondo nel tepore, è quel giocare giovanile ad intrecciarsi, ma senza grida e risa, è un lungo giorno di rosso splendente, è nella quiete, è.

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Prono all'ombra del Dio Rosso, abbarbicato allo slanciarsi delle ripide colonne in fildacciaio, l'Araldo del Dio Lungo dorme da infinite varietà di calcoli del tempo. Dicono i saggi che nel sonno ci ha generati a sua immagine, che se un giorno si dovesse risvegliare smetteremmo di esistere, o morremmo tristemente, ma dicono anche che ciò non avverrà mai prima che il Dio Rosso serri le sue labbra e trattenga il soffio della forma vitale, abbandonando l'universo e costringendo il Dio Lungo a strisicare nuovamente dentro i bui cunicoli del caos, per ritrovare di nuovo la fucina del mondo.
Dicono i saggi che il Dio Rosso generò il Dio Lungo affinchè potesse da lui essere generato, poichè la forma del mondo è quella di un enorme tubo di sezione circolare che penetra dentro sè stesso all'infinito, e questo tubo altri non è che il Dio Lungo, colui che ci generò a sua immagine, ma ebbe la saggezza di donarci estremità per percorrere le sue lunghe cavità e mutarlo di aspetto, colui che generò il Dio Rosso da una scintilla ottenuta sfregando su sè stesso; il Dio Rosso che ordina il buio ed il caos ed occupa il vuoto da cui un tempo trasse il Dio Lungo. Dicono che il ciclo sia infinito ed immutabile ed ogni volta torni su sé stesso eguale ad ogni altra, e così noi con lui.

Dicono tante cose, i saggi, ma a me che me ne importa, io sono solo un umile messaggero per conto del Tempio, ed è tempo che saluti le turbe slanciate dei miei simili, gli interminabili e gloriosi tubolari della Città Rosslunga, il lungo e gioioso intrecciarsi e annodarsi dei miei giovani consimili, e parta per il triste esilio. Dicono i saggi che non devo chiamarlo esilio, bensì grande onore, che la ricerca delle mitiche Poste Centrali è un privilegio che spetta ad uno in dieci generazioni, ma ormai da tempo ho smesso di ascoltarli veramente: non sarò il primo a sopportare l'onta per non essersi slungato abbastanza nel Giorno dello Strisico, non sarò l'ultimo, ma rimarrò uno dei pochi e non avrò nemmeno l'onore di essere svergognato, solo l'indifferenza, per infinite volte.

Avvio i miei lunghi passi e tento di non girar lo sguardo indietro, verso gioie che non rivedrò mai più scaldarsi in questo rosso così vivo, almeno fino a quando ogni cosa non sarà svanita e ricomparsa. Davanti a me la notte sprofonda nel suo mescolìo caotico e incessante, inarca il suo lunghissimo torso in un muto abbraccio, m'invita alla sua danza lenta e gelida, mi chiedo se sia in grado di strapparmi al ciclo infinito del Dio Lungo e del Dio Rosso, questa dea nera è immensa e viva quanto loro, anche se i saggi non la nominano mai. Tiro un profondo respiro, cammino. 

-Yhjkmoah scrisse queste parole, sull'ultima crosta del mondo solido e rosso, prima di avviarsi a sparire nel buio. 


Viandante, pronuncia parole di benedizione per lui, pronuncia parole di perdono, pronuncia parole di rimpianto, egli te ne sarà grato innanzi al Dio Rosso, egli te ne sarà grato innanzi al Dio Lungo, egli te ne sarà grato innanzi alla dea senza nome”



6 commenti:

  1. Ammazza quanto è lungo questo!
    Ma sono arrivato fino alla fine :)
    Beh, dovresti pensare a una sorta di libro per bambini con le avventure di questi esseri spaziali, lo sai? :)
    Fine della satrapia, sale al potere il Generale Moz.

    Moz-

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    1. Non so, 'ste storielle hanno la tendenza a essere poco edificanti per dei cuccioli di essere umano. Comunque tanti auguri per la dittatura, ricorda di conservare buoni collegamenti con le Poste Centrali :P

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  2. Kafkiano e manganelliano direi... politeista senz'altro, caotico quanto basta, speranzoso il giusto. Una cosa è certa: a me, una volta, nella piana di Sgrogogo, me s'è rotto il navigatore, e per almeno un'oretta ho girato in lungo e so' finito in rosso.

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    1. Beh, grazie per l'apprezzamento :)

      C'è un detto che fa: "Problema grosso/ finire in rosso/ se il Mruhlummàhg emerge dal fosso", è un detto dei postini che battono la piana di Sgrogogo, la quale ha seri problemi di subsidenza e qualche problema di paraesistenza, però anche un'uscita per il raccordo anulare, da qualche parte, se ben ricordo, giacchè non si può sfuggire alla Legge dell'Ubicazione Universale, la quale dice: "Tutte le strade portano a Roma".

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  3. Quel "tutte le strade portano a Roma" fu coniato da un villico che tentò per tre anni di tornare a casa dopo essere uscito dall'Ikea di Anagnina ambendo il raccordo anulare direzione Appia. Credo sia ora il custode dei carrelli abbandonati dai clienti stufi di fare la fila. All'Ikea. (ma questa è un'altra storia e credo meriti post a parte...)

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    1. io so che era lo slogan elettorale di quel mitico politicante che negli anni sessanta volle farsi eleggere a Olbia proponendo di costruire un ponte tra la Gallura e Civitavecchia...

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